Programmazione

UN ROMANZO ONLINE. OGNI LUNEDI' UN NUOVO CAPITOLO.OGNI VENERDI' GLI APPROFONDIMENTI, LE SUGGESTIONI, I RIFERIMENTI CHE HANNO ISPIRATO IL ROMANZO, PER CHI DESIDERA ENTRARE IN UNA DIMENSIONE FATTA DI MUSICA, EVENTI, IMMAGINI, FILM E DIPINTI. UN MELTIN' POT DI INFLUENZE COSI' DA NON DOVER SOLO CREARE CON LA FANTASIA, MA POTER SFRUTTARE AL MASSIMO ELEMENTI CONCRETI E TRASCENDERLI PER ADDENTRARSI NELLE CITTA' IRRISOLTE.
UNA PROGRAMMAZIONE POSSIBILE SOLO SU UNA RADIO CHE NON ESISTE E TRAMETTE OVUNQUE.
OLTRE OGNI EPILOGO.

-R.S. CENCIARELLI-

Monday, November 10, 2008

Chapter 2 - La Musica Che Gira Intorno



Perché l'America così come Roma gli fa paura
E' il medio oriente che qui da noi
Non riscuote nessuna fortuna.

Sarà la musica che gira intorno
Quella che non ha futuro
Sarà la musica che gira intorno
Saremo noi che abbiamo nella testa un
Maledetto muro
...


- Non è che può spegnere?
Il tassista non rispondeva, impegnato a muovere la testa e canticchiare come un perfetto idiota.
- Hombre? Non è che può spegnere o abbassare questo frullatore?!
- Cosa?
- Oh Cristo, non ci credo, è una coalizione di imbecilli contro di me...
- Matt!
- E tu ne sei a capo scommetto.

Ma uno che tiene
i suoi anni al guinzaglio
E che si ferma ancora ad ogni lampione
O fa una musica senza futuro
O non ha capito mai nessuna lezione.

Sarà che l'anima della gente
Funziona dappertutto come qui
Sarà che l'anima della gente
Non ha imparato a dire ancora un solo si...


- Le dicevo gentile autista che...cazzo! Ho sonno, voglio dormire, siccome sull'aereo non è consentito addormentarsi con un goccio di whisky, vorrei potermi riposare su questo maledetto sedile di pelle stracciata e la sua musica sgangherata non mi permette assolutamente né di rilassarmi né tantomeno di addormentarmi...cazzo!
Il tassista abbassò il volume al minimo e poi si girò col suo faccione rubicondo verso i suoi clienti.
- Hey calmo, lei è quello famoso vero?
- Sì, o almeno credo...
- Lo scrittore?
- Sì, allora ha beccato il quello famoso giusto...
- Sa quando sono teso anche io ricorro a due vecchi amici: Johnnie e Jack. Oggi c'è solo Jack, però se vuole può usufruirne, magari la aiuta.
Il tassista, un signore sulla cinquantina pelato e grassoccio, mise la mano nel suo più che capiente maglione verde-foresta nera, bucherellato qua e là, e ne tirò fuori una piccola borraccia argentata, porgendola sorridente al professor Matthew Angeli.
- Ecco a lei, assaggi pure.
- Oh Dio esiste!
Afferrai di corsa il contenitore e lo svitai, ma proprio mentre stavo per poggiare le mie assetate labbra all'amato nettare...
- Matt, fra poco c'è la presentazione, non so se dovresti...
- Cristo Mary, non ricominciare ora.
- Io lo dico per il tuo bene.
- Io non mi voglio bene, dopo vent'anni dovrebbe essere chiaro anche a te...maledizione!
- Ma io… sì.
- Ti prego, falla finita.
Gli occhi di Mary si bagnarono teneramente, tanto da renderli lucidi. Combino sempre casini.
- Ora non vorrai metterti a piangere...
- No, ma...

Oddio, singhiozzava. Tappatele i rubinetti.

- No, no, non posso sopportare una crisi di pianto. Ho la testa che mi sta esplodendo, ma perché sono tornato a casa?
Bevvi velocemente una sorsata di whisky e finalmente sentii il mio corpo irrorato del giusto calore, i bronchi, i bronchioli nuovamente aperti, gli occhi meno arrossati e un grande senso di armonia.
- Scusa Mary, puoi perdonarmi?
- Sì, certo amore.
- Fantastico. Ora pensiamo a cose serie. Tassista della Provvidenza ci porti all'hotel...l'hotel...ehm...
- Il Grand Hotel dell’Uguaglianza.
- Esatto, a quell'hotel lì che le ha detto la mia Mary. Devo fare una doccia e bere qualche drink prima di incontrare quell'ammasso di intellettuali snob.
- Certo signore.
- E riaccenda la radio se vuole. Anzi, cantiamo insieme, ma prima mi rimetta in linea col suo amico Jack...
Quante risate ci si possono fare in taxi.


Correva, a perdifiato. Correva. Si guardava dietro di tanto in tanto, ma data l'incredibile velocità che ormai teneva stabilmente, addirittura accelerando in alcuni tratti, ogni sguardo che cercava di tendere oltre le sue scapole dava come risultato solo un insieme indefinito di puntini, ombre, colori mescolati come in una tavolozza di Pollock.Correva ad ogni modo.E lo inseguivano, lo sapeva.Rumori di sterpaglie rotte, rami spezzati, sassolini che schizzano al passaggio del peso delle scarpe e si infrangono, piccoli proiettili, sul tronco degli alberi, sulle foglie.Respiro affannato, un silenzio simulato, ma che è inutile quando si corre, tanto più quando si è terrorizzati. I crepitii notturni, dentro quel bosco si moltiplicavano, le scarpe diventavano innumerevoli, tenebre lunghe si allungavano, ramificandosi in immagini distorte di dita che adocchiano, le voci sussurravano diverse, si davano indicazioni, segnali, avvertimenti, in conclusione, sostegno feroce, ferino, predatore.Lo inseguivano, ad ogni modo.E lui correva, lo sapevano.Non sarebbero andati troppo lontano, le corse devono finire prima o poi: questo principio era ben in mente a tutte e due le compagini, come lo è nella natura primitiva dell'uomo.Una cittadina della Bretagna, case basse, colori soffici, tenui all'imbrunire, strade strette, dinoccolate, diversi spessori e rilievi delle pietre che lastricavano la pavimentazione.Correre, questo importa,non guardare tutt'intorno il paesaggio.Le finestre colorate di nero, di verde, di rosso si riunivano in un colore che, al crepuscolo, diventava una tavolozza uniforme, descrivendo un percorso studiato a tavolino proprio per quella sera: una strada senza vicoli, da cui l'unico modo di uscire era la fuga sudata, guardandosi intorno.Battere di mattonelle, no, scontrarsi di tegole, il rumore vuoto della ceramica che si bacia sui tetti antichi di quel villaggio.Correvano sul tetto loro, gli inseguitori.Dall'alto del cielo potevano seguirsi bene i movimenti rapidi, veloci, a scatti, di quelle ombre, cinti di larghi mantelli, tutti neri, loro neri, fugaci pezzi d'oscurità che saltellavano sopra le case, fissando i loro occhi, perennemente illuminati sulla preda ormai sfiancata.Aumentavano le ombre, ma non scendevano in strada, corteggiavano il percorso della lor vittima, riunendosi, sempre più numerosi e soffocanti, emergendo dalle strade laterali e aggrappandosi alle grondaie per una adunata frettolosa e sopra i piccoli edifici.Poi venne, come spesso accade con le strade, la fine di quella via.Il dirupo era scosceso, straripava di rocce aguzze, figlie di un erosione del tempo che, mai, lascia doma la natura e sprovvista dei suoi aculei per difendersi dagli uomini. Il mare tergeva rovente e folle i suoi scogli, amoreggiando con essi con truce, primordiale erotismo, schiuma su terra, roccia nel mare, sbattendo le sue braccia di onde sul seno florido di una montagna ancora soda.E lo sapevano le due compagini, s'era già detto, prima o poi occorre fermarsi.E così fecero, prima la preda, poi l'inseguitore.Ferma sullo scoglio la triste vittima umana di una commedia divina fatta di eventi naturali che si abbattono gli uni sugli altri, ansimava, ormai vivacemente, le ultime esalazioni della sua vita supposta.Fermi e concentrandosi in una unica macchia, gli arcigni inseguitori, assassini, vampiri, ancestrali mostruosità deformi delle venature della tenebra, aspettavano, senza fiatare, la decisione fatale del loro obiettivo, il decreto sancito di farsi sbranare.Dilaniare.La morte.Una macchia che sempre più stringendosi diveniva nera, di un nero che si amplia e ricopre.Ammazzare.La notte.Il nulla.Un cimitero, le lapidi in terra, una terra coperta da fili d'erba verde brillante, ma, al contempo, scuro, opaco, nebuloso. Angeli della morte a proteggere, nella loro consistenza marmorea, le vite spente dei cari di altre persone persone lontane da quel luogo.La preda si aggira silenziosa tra quelle tombe, gravi, lucenti, nel buio della notte finita o del mattino che comincia, mentre riflessi di luce danno le sembianze distorte di ringhiere usurate e cadenti, piegate, ricurve, odiosamente tetre e inquietanti, paurose.Voci sotterranee, voci nell'aria, voci che sospirano, pianti tremendi di una follia triste che, quando arriva l'ora di dormire non ha chi gli racconti favole e allora, dissennata irrealtà, diventa la pazzia di un inseguitore.Ma ora nessuno insegue, perché nessuno deve correre.Tutto tace.Grilli tra le piante e i crisantemi.Riflessi violacei da lontano, la vittima si appresta verso l'indicazione sicura di quella luce e di fronte a sé, nel bel mezzo di un cimitero, la grande piramide, mai trovata, di tutti i segreti dell'Egitto, ricettacolo dei misteri, delle malattie, del crogiolo orrido e nero del Male, origine sconsacrata della natura umana.Canti rituali.Litanie.Lamenti.Urla.Tutto è rallentato, la preda entra di scatto, senza capire, vuole evitare la sorveglianza di due vampiri e di due uomini con la testa di falco. Entra dentro, nei cunicoli di solidi e grandi mattoni, la luce violacea si perde nei riflessi giallognoli e rossi della sala centrale.Un grande spazio, profondo, una fornace al centro, per terra, una loggia carica di mostri, vampiri, divinità dell'oblio che guarda compiaciutaSu una pedana un guaritore, uno sciamano, un prete, un adoratore del demonio insieme predicano sul corpo lieve d'un ragazzo.Una preda.Poi un tremendo sacerdote gli agguanta il cuore, strappa le carni, fiocca sangue dai flutti interiori, un urlo straziante, risate, lamenti, orrido colare, un grido di dolore che si distorce lancinante nell'aria vuota, il corpo si contrare, risale su stesso, poi cade, crolla, si paralizza, si fa dritto, poi floscio e cade, come spezzato, ricadendo gli arti fuori dall'altare sacrificale.Il sacerdote ha in mano un cuore che pompa, alza lo sguardo, è cieco.Fissa la nuova preda, incauta è voluta entrare nel tempio della sua morte.Per un attimo il vuoto nero delle orbite si fa pupilla di luce e lo guarda, lo indica.Tutti fanno silenzio, lo guardano lo indicano.Lui corre, ma prima o poi dovrà fermarsi. È la legge dell'uomo.

- Uhm…gh…ah!...oddio…che cavolo…
Prese veloce la pistola da sotto il cuscino e si girò di scatto pronto a sparare. Gli occhi affilati nel buio, i denti stretti, un raggio di sole dalla parte opposta della stanza…
- Un incubo, un incubo cazzo…
Si mise seduto sul letto, era madido di sudore, gli occhi sgranati, sentiva bene il battito del cuore, respirava affannosamente.
Fumava troppo.
- Un incubo
Ripeteva. Robert Micheal De Valera aveva problemi di sonno, da anni.
La bocca afflosciata sulla prima sigaretta della giornata, prese il suo zippo dorato e accese quella prolunga di nicotina mezza accartocciata. Il rumore della carta che prendeva fuoco e si bruciava al primo tiro era udibile in tutta la stanza.
Poggiò i piedi per terra e cercò di rilassarsi, si passò una mano tra i capelli corti, castano scuro, anche quelli bagnati, poi, si diede una stropicciata alla canotta bianca, una sistemata ai calzoncini e a quello che c’era sotto i calzoncini, e decise di alzarsi in piedi. Si mosse dritto, con la pistola in mano, verso i fornelli, ma prima fece un salto alla finestra e scostò la tendina fiorata.
Robert Micheal De Valera viveva nel quartiere londinese di Soho, in un vicolo strettissimo, dove i negozi di un lato praticamente si poggiavano sui negozi dell’altro. Negozi…teatri a luci rosse più che altro. Lui era in affitto da una anziana signora, Miss Darling, che era anche la proprietaria del teatro di sotto. Che dire: la pensione della signora era bassa e gli sporcaccioni, i pervertiti, i depressi e i ragazzini in crisi ormonale non finiscono mai.
Un business sicuro insomma.
Ogni tanto Robert amava spostare la tendina e guardare sotto nel vicolo la gente che passava veloce per non farsi accalappiare da chi pubblicizzava i locali. Nonostante le frequentazioni, non certo convenzionali, era un posto tranquillo. Nessuno gli faceva domande, nessuno voleva che gliene venissero fatte. Robert amava il silenzio del suo monolocale, la notte si fermava a fumare e guardava l’insegna luminosa rosa che si accendeva e spegneva ad intermittenza, la gamba luminosa della donna elettrica che si abbassava ed alzava, la scritta – Hot, Hot, Hot – che andava e tornava. Altre volte si rivolgeva ad una visuale alternativa: la parete di mattoncini rossi dell’edificio di fronte, sempre da quel piccolo angolo che s’era riservato spostando appena la tendina.
Era una stanza bigia, sulle pareti carta da parati con motivi anni’60, ormai scrostata, l’intonaco rigonfio per l’umidità e ricco di quegli aloni tra il verde scuro e il grigiastro che dimostrano una pessima cura della casa. Ma lui non doveva ricevere nessun ospite e, quindi non gli interessava.
Neanche Robert Micheal De Valera era una frequentazione convenzionale.
Tolse la canna della pistola dal vetro e la tendina ricadde nella posizione abituale, poi si diresse verso il mobile basso, giallo con i bordi bianchi, della cucina, o meglio, della parte della stanza adibita a cucina, lo aprì e prese una padella, la posizionò sul fornello, accese il gas, poi la fiamma, e afferrò la bottiglia di olio che aveva sul mobile di sopra, niente sportelli, solo le cerniere. Cosparse la padella con l’olio, aspettò che si riscaldasse. Intanto, aprì al frigorifero e prese tre uova. Tutto era pronto. Spaccò le uova e le versò, una ad una, nella padella.
Sfrigolavano. Robert smuoveva convinto la padella, tenendo ben saldo il manico con una mano e con l’altra tenendo la sigaretta che ormai era a arrivata alla sua metà.
Il suo piatto preferito: fried eggs.

- Fried Eggs, per favore.
- Non ne abbiamo, signore.
- Una colazione continentale che non ha due uova fritte? Devo venire io in cucina a farvele?
- Mi dispiace signore, ma la aspettavamo più tardi, l’ora della colazione è passata e non eravamo preparati…
- Per cosa? Per farmi incazzare? A me pare che siate molto preparati in questo, tutti quanti…
- …Non so cosa dire, è il mia prima settimana signore, sto per staccare, non so cosa…
- Non so cosa, non so cosa, ti si è rotto il disco ragazzino? E questo cosa è? Questo bicchiere ti sembra pieno?
- No, signore…
- Sarebbe da picchiarli quelli che non riempiono il bicchiere
- Io glielo riempio se vuole, le ripeto è la mia prima settimana, ho un po’ di emozione poi a conoscere tutti questi importanti personaggi, e…
- Come ti chiami ragazzo?
- Jonathan Schultz, signore
- Bene Jonathan, quando la vita sarà così bella e rosea da farmi sembrare che le tue tenere scuse da cucciolotto siano accettabili, te lo farò sapere, per il momento non me ne frega una stramaledetta verga di quello che devi fare o di chi tu sia…io voglio un martini, rosso, senza ghiaccio e delle fried eggs, prima del prossimo Giubileo se mi è concesso.
- Ma le uova, signore…
- Creale, usa le tue abilità rettali e creale.
- Sì, certo, torno subito.
- Grazie.
- Possibile che ti incontri sempre a rompere le scatole a qualcuno?
- Ma chi diavolo…
- Stan!
- Mary, ciao baby, come stai? Ti trovo in forma stupenda, sei dimagrita un po’, ma sei ancora una favola, dieta? Elisir di lunga vita? Ehi, cosa piccola?
- Ma smettila Stan Laurel, anche tu sembri il solito ragazzino scalmanato.
- Oh, ma io lo sono santo cielo! Se non lo fossi non potrei farmi spupazzare in giro come se fossi una trottola, baby…
- Hai visto Matt, c’è Stan…
- Sì, ho gli occhi ancora…
- Che vecchio brontolone che sei diventato Mattia Angeli!
- Del resto tu non sputi mai Stan Laurel.
- Andiamo a bere qualcosa?
- Ovviamente sì
- Ci accompagni Mary?
- No credo che andrò un po’ in stanza a riposarmi…è stato un lungo viaggio
- Certo.
- Sì ecco brava, andiamo Stan?
- Buon riposo piccola.
- Grazie Stan. Ci vediamo dopo.
Stan e Matthew si diressero verso il bancone della hall. Stan Laurel era un tipo alto, magro, dal passo dinoccolato, due occhiali a cerchio con le lenti viola, i capelli ricci scuri un po’ lunghi da rockstar, una t-shirt con un maiale che imitava lo zio Sam in “I want you” solo che la scritta impressa sulla maglietta era HUMAN FARM.
Matthew Angeli del resto era un tipo di bella presenza, capelli neri raccolti sotto un cappello borsalino, basette ben definite, occhiali da sole a coprire gli occhi sfatti dall’alcol, qualche screpolatura sulla bocca ben coperta da un una barba che contornava le labbra e con un sottile filo si legava al mento, sorriso impeccabile, ma non sorrideva quasi mai ormai, di media statura, sicuramente un po’ appesantita da quella pancia alcolica che aveva da tempo, ma che un doppio petto copriva alla perfezione. Un uomo sempre affascinante se non dava modo al suo interlocutore di odorare tutto il frigo bar che si emanava dalla sua gola.
Jonathan Schultz, un giovane di certo non preparato a questa giornata, correva avanti e indietro e pregava Dio che avesse versato il giusto in quel bicchiere. Partì dal bancone e si diresse verso il tavolo del famoso scrittore.
La radio dell’hotel dava Alice in Wonderland del Bill Evans Trio.
Le scarpe nere lucide del giovane si rispecchiavano sul pavimento, sul quale da poco era stata passata la cera.
Un ticchettio stridulo passeggiava a terra, era il barboncino bianco della Duchessa Menteur che batteva con le piccole unghie, cercando di sfuggire alle amorevoli cure della padrona. Lei era ferma nel grosso abito azzurro di velluto, adornata da gioielli, i capelli tutti ben arroccati verso l’alto, la faccia piena e il trucco tendente a tinte chiare, in accordo con le piume blu che le decoravano il capo. Stava mangiando dei salatini e beveva un campari con ghiaccio. Poco femminile ma molto nobile quel bicchiere in mano a mani così piene d’anelli. I due, il cane e la padrona, si trovavano al primo tavolo di una lunga serie, nella grande hall, sulla sinistra, attaccati alla parete e sfalsati da colonne in stile liberty.
Schultz avrebbe dovuto percorrerle tutte perché Matthew Angeli si era messo al tavolo d’angolo in fondo
- Così nessuno può rompermi i coglioni- gli aveva detto
Superò il secondo tavolo, poi il terzo dove il vecchio signor DeFilippo sovente faceva d’occhio alla duchessa, ammiccando anche con gesti osceni, dei quali, però, la florida duchessa sembrava compiaciuta e lusingata.
Meraviglie della nobiltà.
Per il resto si trattava di una serie di tavoli vuoti, tranne uno in cui dei bambini si divertivano a nascondersi sotto le gambe di legno grave. Così fu per il quarto, il quinto, il sesto…
- E questo lo prendo io
- Ehi!
- Tieni ragazzo, fatti un cervello.
- Ma che c…oh…signor Angeli
Matt con molta calma prese qualcosa dalla tasca e la poggiò sul vassoio del cameriere:
- Dimmi
- Sono cinquanta euro
- Lo so, pensi abbia problemi di vista?
- No, signore, assolutamente, grazie
- Vai su
- Certo, io, signore, oggi…
- Sì è la tua prima settimana, io ho sete, divertiti, su vai via ora
- Sì, signore
- Come mai questa bontà? Non è da Matthew Angeli essere affabili…
- Magari sto invecchiando o mettendo la testa a posto
- Sei vecchio già da parecchi anni, amico mio, e no, non credo che tu stia mettendo la testa a posto, ho visto che faccia aveva Mary…
- Mi volevi portare a prendere da bere o mi volevi confessare, padre?
Poi diede una bella sorsata a quel martini rosso
- Ah, benzina fresca…
Jonathan Schultz rimase imbambolato a guardare quei cinquanta euro: in fondo non era proprio del tutto uno stronzo quel famoso scrittore, pensò.
- Cameriere?
Chiamò una donna dal tavolo ad angolo in fondo, quello che era stato del professor Angeli.
- Sì arrivo immediatamente
Si mise i soldi in tasca e si mosse a passo svelto verso quel tavolo.

La bruma mattutina dei verdi campi inglesi.
Un ragazzo, sbarbatello, la faccia lentigginosa, gli occhi vivaci e i capelli castano scuro mossi dalla brezza che fendeva i campi, abbassando ondate di fili d’erba.
Sibilando.
Il ragazzo avvolto in una grigia giacca di feltro, piena di bruciature e buchi, a passi lunghi, affondava nei fitti prati verdi.
Correva, ma sembrava felice.
Zoppicava, no, era qualcosa di scomposto, come se avesse preso qualche colpo sulla schiena qualche ora prima.
Fumava sigarette di contrabbando. Tossiva ogni tanto e si perdeva nelle macchie intense di verde.
Il ragazzo era appoggiato ad un muretto scurito dal tempo.
Attendeva e fumava.
L’omone scorazzava per le strade sterrate con un vecchio camion sgangherato, blu scuro.
- Sali – disse
- Ok – rispose il ragazzo
- Che hai in faccia mostriciattolo?-
- Caduto dalle scale-
- Certo…come no…-
Il ragazzo portava vistosi lividi da colluttazione. Ma tutti sapevano del rapporto violento che il padre aveva con la bottiglia e coi figli.
L’omone guidò fino ad una fattoria, bigia, metallica, fangosa, vermiglio e nuvole.
L’omone crollò con gli stivali sul terreno fangoso, dondolandosi per i sentieri che collegavano i recinti al capanno, portando dietro di sé un bel maiale grosso, con lo sguardo truce, insensibile. Il ragazzino avvertì un brivido, ma continuò a seguire il tizio.
L’aria sapeva di morte, le querce attorcigliate su se stesse contemplavano la tumida atmosfera, mentre i colori tenui dell’alba si scioglievano verso i colori del grigio. L’omone introdusse tutti nel capanno e poi chiuse la porta scorrevole dietro di sé e accese la luce che, appena, faceva trasparire le facce dei due e la forma del maiale che girava allegro per il terreno battuto.
Un fattore, il vecchio omone grasso con pochi capelli sdentato senza alcun cenno di sorriso che non fosse ambiguo o inquietante, gli aveva già spiegato qualcosa, ma il ragazzo non ricordava cosa.
Avrebbe dovuto attendere e agire come sapeva, senza sapere.
Forse ecco, lui, il fattore, l’avrebbe tenuto, e lui avrebbe tagliato, occorreva far scolare bene tutto il sangue, era importantissimo non si accorgesse di nulla. Ma chi? Cosa non doveva capire?
La carne si sarebbe indurita, sarebbe diventata invendibile se non ad un prezzo che nemmeno contemplava. La carne fresca odora di velluto, è fresca, scivola, impregna le narici di ebbrezza. Nessuno voleva farla indurire.
No.
Credenze di uomini e maiali.
Così l’omone fece segno con gli occhi. Il ragazzo si infilò nell’ombra, ora sentiva la paura l’attesa, mentre il vecchio ammansiva il porco, poi lo bloccò di scatto, una forza disumana quella dell’omone sdentato che tendeva tutti i nervi del collo mostrando una smorfia di sforzo che portava i lati della bocca verso il basso e le gengive a digrignare, la faccia paonazza. L’occhio fulmineo, suino anch’esso, del vecchio penetrò l’ombra, arrivando alla pupilla del ragazzo e poi bloccandogli lo stomaco.
Sentiva bene quella presa dura sugli intestini, quel fiato mozzato.
Lui, a differenza di quelle che pensava, si mosse a comando, freddo, implacabile, l’occhio del suino per un attimo si voltò a scorgere che gli succedeva dietro, ma fu troppo lento per accorgersi del soffio d’una morte che arriva sulla lama di un coltellaccio. Un taglio preciso, netto , profondo, ma non eccessivamente. Sangue, copioso sangue che scendeva dal collo. Da parte a parte rivoli di sangue, a principio, che poi si unirono al centro colando a cascata sul terreno, mentre il taglio che sembrava sottile, decorativo, divenne un evidente squarcio.
Fango e sangue
Morte.
La bestia, dopo pochi inconsapevoli rantoli, tenuta ferma sia dal vecchio che dal ragazzo, restò, in piedi, immobile.
Dignità di chi muore, ucciso a tradimento. Poi cadde: non s’era resa conto di niente.
- ben fatto
disse il fattore, pieno di schizzi di sangue sulle guance e sul naso. Si passò un mano tra i pochi capelli e divennero rossi.
Il ragazzo girò le mani col palmo verso l’alto, le scorse.
Sangue, rosso sangue, rosso, rosso rosso.
Omicidio!

Robert Micheal De Valera ebbe uno scossone improvviso e si accorse che stava sminuzzando le uova nel suo piatto, agitando oziosamente la forchetta da troppo tempo. Riprese a portarsi quel giallo solido alla bocca, a masticare, a fumare, a pensare. Sfiorò la vecchia radio di radica che teneva sul tavolo. Gli occhi scuri pensosi, le lentiggini intorno al naso, i capelli castano scuri, le rughe intorno alla bocca, la barba di qualche giorno.
Era un uomo che stava più vicino ai sessanta che ai cinquanta, nonostante il fisico ancora tonico e ben allenato. Si alzò dal tavolo e mise il piatto vuoto nel tinello. Il rubinetto perde.
Perdeva da anni, ma quel costante cadere di una goccia distratta conciliava il sonno, forse meglio del bicchiere di gin prima di andare a letto.
Si girò intorno, scrutando le pareti di quella casa. La visuale può alzarsi fin sopra il soffitto e scovarlo muovere agitato la testa verso i quattro lati e deglutire, poi avviarsi verso il letto e sedersi al suo bordo, stringersi nelle spalle e dare profondi tiri di sigaretta, inalando e espirando ingenti quantità di fumo.
Ai piedi del letto una sacca mezza piena, l’armadio a muro è aperto. Robert vede un paio di calzoni per terra, li raccoglie e si protrae verso la sacca, infilandoli dentro.
Sembra essere più qualcuno in partenza che uno appena arrivato.
Scricchiolio di legno.
Le scale.
Passi decisi sulla moquette che copre il corridoio esterno.
Tacchi per scarpe da uomo.
Una pressione che fa immaginare un uomo asciutto ma ben saldo. Un rumore inedito in quell’edificio. I passi si fermano nello spazio antistante la mia stanza.
Mi volto, guardo sul letto. Eccola.
Prendo la pistola. Sono scalzo, questo rende silenziosi, o poco udibili i miei passi.
Nascondo la pistola dietro la schiena.
Le scarpe fanno uno, due, tre passi verso la porta.
Bussa.
Trattengo il respiro, attendo.
Bussa ancora.
- De Valera?
Conosce il mio nome, io non la sua voce. Porto la pistola in avanti, la tengo verso il basso, mi muovo con le gambe piegate verso l’occhiello, do una sbirciata. Non so chi sia.
Faccio uno due, quattro passi indietro, così da non farmi crollare addosso la porta in caso di presenze ostili dall’altra parte.
Una goccia di sudore sulla pelle cala dalla nuca fino al mento percorrendo una linea ricurva.
Alzo la pistola e vaffanculo:
- Chi è?
Tono sicuro.
- Giovani Eroi della Nuova Inghilterra
Tono sicuro pure lui, sapeva di trovarmi dentro. Ma non dice la verità.
- Cosa vuoi?
- Non mi conosci
Questo lo so, mi dà informazioni inutili. Prende tempo. È giovane.
- Questo lo so – rispondo
- Ma conosci l’uomo per cui lavoro?
È una risposta abbastanza scontata da dare, ma lo lascio fare.
- E per chi lavori?
Ormai la conversazione sta scadendo di livello.
- La Voce
Prima che gli dica di fare tre passi indietro, decido di farlo entrare.
- Fai tre passi indietro
Appunto…
- Okay
Apro la porta, davanti a me un ragazzo sul metro e ottanta, vestito con dolce vita blu e giaccone di pelle marrone, capelli rossi, sguardo ambiguo, labbra sottili, sembra un idiota, ma la Voce non manda idioti, sempre che l’abbia mandato la Voce.
Io per non far torto a nessuno, lo accolgo con la pistola ben indirizzata poco sopra il suo naso.
Lo tasto per sentire se è armato, lo tengo fuori dall’appartamento, se gli devo sparare non voglio che si sporchi la moquette di Miss Darling. Dovrei uccidere anche lei. Troppi morti inutili.
- Ok entra.
- Grazie – fa lui con un sorriso quasi irrisorio
Credo che sappia che stavo per ucciderlo, ma non sa che potrei farlo anche ora, senza sentire quello che ha da comunicarmi. Ambasciator non porta pena, ma non vuol dire che sia immortale.
Gli faccio segno di sedersi al tavolo.

Granada. Bill Evans. Una bocca che sorregge una sigaretta. Un uomo che suona. Solo Archi. Tutta l’orchestra. Musicisti vestiti in smoking bianco, calzoni neri, papillon nero. Si agitano sui loro strumenti. È pur sempre Bill Evans.
L’angolazione dell’obiettivo si apre e ora riprende tutta la sala. Vari tavolini tondi. La luce del primo pomeriggio filtra dalle larghe finestre a destra e a sinistra. L’orchestra è in fondo alla sala, sul lato piccolo del rettangolo. Ora giriamo intorno ad un punto focale, trecentosessanta gradi di possibilità visiva: in fondo, dalla parte opposta all’orchestra, due tavoli per il buffet, è la fine di un brunch, vedendo come le fiamminghe siano state ormai rastrellate. I camerieri parlano tra loro: Jonathan Schultz è ancora lì. Pare non abbia ottenuto il permesso, giornata troppo importante, ha detto il capo. Qualche donna vestita con comodi tailleur sulle tonalità del marrone parla con in mano dello spumante: quest’anno è l’anno del marrone, la first lady ne indossa in quantità smisurata. Siede in un tavolo rotondo tra le prime file: una signora di classe, molto riservata, poco appariscente, occhiale con lente appena tendente al marrone, capelli terra di Siena ben sistemati in una acconciatura costruita verso l’alto che lascia cadere qualche ricciolo in libertà, tailleur beige con collana di perle e camicetta bianca con fronzoli, sorride e scherza col vicino, lo invita a riempire il posto vuoto vicino a lei. Il Presidente non interverrà al brunch, per motivi tecnici dopo i fatti di Lisbona e le tensioni della recente rielezione. Il vicino, dopo qualche tentennamento, con un piccolo balzo passa di sedia tra le risate generali. Mascella squadrata, occhi azzurri, parecchie rughe, soprattutto intorno agli occhi, sorriso da pubblicità del dentifricio, capelli tra il bianco e il dorato, nel suo doppio petto blu scuro, impone importanza e fiducia in un qualche sogno non ben identificato. È il Ministro John Smith. Ama gesticolare con le grandi mani, spiegando i suoi progetti e le sue idee come se li stesse costruendo sul momento. Impone i palmi,li rigira, crea cubi, stringe i pugni, contrae le dita, agita il braccio, poi lancia una grande risata. Un uomo simpatico se non fosse uno dei personaggi più discussi della UE, ma anche uno con le maggiori influenze per numero di voti e sostenitori nella sua corrente. Accanto siede la Duchessa Menteur e il suo tenero barboncino. Lei ascolta deliziata le innovazioni del nuovo governo che escono dalla bocca del ministro con rapida fluidità, intanto mangia un bignè ricolmo di cioccolato, sporcandosi ai lati della bocca. Grinzosa e sgraziata, ma pur sempre molto nobile, non se ne accorge o non dà conto al fatto. Di tanto in tanto prende il piccolo cagnolino e se lo bacio, lui la spazzola con la lingua ai lati della bocca.
Ovviamente. Il barboncino dovrebbe sedere accanto alla duchessa, ma preferisce starle in braccio e giocare con le palline di mozzarella fritta che sono nel piatto della padrona. La signorina Menteur nota per le sue relazioni focose in gioventù e per accalappiare giovani ragazzi in vecchiaia, è la finanziatrice principale del premio e della corrente del Presidente. Gli si può perdonare si sporchi la bocca e non se la pulisca mai. Così anche il posto successivo è vuoto, lasciato dal cane.
Stan Laurel odia i cani. Fortunatamente la bestiaccia si è spostata nelle braccia pendule delle duchessa, ma Stan comunque mangia con la sedia spostata verso il suo vicino umano. Ogni tanto inforchetta qualche pezzo della fetta di torta ai mirtilli che ha preso al buffet e sorride. È un gran chiacchierone Stan, è lo speaker di una radio importante, ma oggi è un po’ trattenuto dalla presenza del ministro Smith: si odiano. Stan lance frecciate al veleno contro il ministro, durante le sue rubriche radiofoniche, accusandolo di essere in ordine: un Belzebù, il Richelieu dei nostri poveri tempi, la voce del regime, il Talleyrand venuto dall’ovest e tanti altri soprannomi ancora. D’altro canto la fama di Stan Laurel è enorme, e ogni sua scelta, battuta, presa di posizione crea una enorme eco nel mondo dei radioascoltatori. Il passato di questo ragazzo, ormai un po’ rugoso, ma sempre smagliante è avvolto nel mistero: un ex rivoluzionario dicono alcuni, un semplice speaker che ha fatto carriera, altri, di sicuro nessuno può non affermare che la sua leggenda sia nata proprio durante la protesta giovanile, come inviato e redattore di molti giornali e radio indipendenti, o che sia stato arrestato e rilasciato svariate volte durante le sue partecipazioni a cortei di protesta, è - un’icona vivente di come la società premi gli eversivi – ama sottolineare John Smith. Infatti, voci vicine al governo, vogliono che il ministro Smith sia convinto che Laurel appartenga al movimento terroristico dei Giovani Eroi della Nuova Inghilterra, giacché, ed è un fatto, nei suoi discorsi radiofonici non è raro che egli nomini questa sigla o la sottintenda.
Il vicino umano di Laurel è Marcel Zenot, un intellettuale molto conosciuto, amico della duchessa, completo di velluto, scuro, maglia di lana sottile con collo alto, nera, capelli rossi tirati ben indietro e tenuti dalla brillantina, occhiali spessi, neri, poggiati sul naso, le lenti sono ininfluenti per la vista di Zenot, è solo una questione di immagine, fuma un sigaretto con fare altero, sulle labbra carnose due baffi alla “I Tre Moschettieri”. Segue il discorso con attenzione, pronto a lanciare qualche giudizio ispirato.
Il professor Angeli lo guarda con un sorriso che gli sta per sfuggire da un momento all’altro, facendosi d’occhi di tanto in tanto con Stan Laurel. Il professore ha in mano una coppa di Bellini, gli occhi un po’ sgranati e fissi su Zenot che si tocca il collo nervosamente già da una decina di minuti, ma fa finta di nulla. Il professore è completamente disinteressato a ciò che si dice.
Accanto a lui, con piccoli colpi sistematici alla gamba sinistra, Mary, la sua Mary, continua a richiamare l’attenzione di Matthew e, intanto, sorride e partecipa interessata alla conversazione. Una donna splendida, pelle candida, lunghi capelli castani che riflettono naturali striature tendenti al rosso, gli occhi azzurri del mare d’estate, la bocca composta, fine, le mani che sistemano le pieghe della tovaglia con delicatezza, mani raffinate, adornate da alcun gioiello. Ogni tanto poggia le mani sul ventre e segue compita nel suo vestito fiorato, leggero.
- E lei cosa ne pensa Mary?
Interviene Vanessa Hodgson, reporter investigativa, molto cara alla first lady, una ragazza leggermente robusta, i capelli mossi tra il castano e il biondo, una maglietta scollata che le si poggia sulle spalle, modi diretti, sguardo scuro e malizioso, bocca sempre raccolta ad aspettare un errore, fuma sigarette nazionali, il cui pacchetto è inevitabilmente poggiato vicino al piatto, brutto vizio dei giornalisti. E con questo è finita la tavolata.
- Mary?
- Oh sì, perdonami Vanessa, devo essere franca non ho molta confidenza con queste nuove tecnologie, sono talmente impegnata col lavoro di Matthew che mi pare davvero difficile possa curare questo genere di passatempi.
- Beh cara anche io sono sempre in giro con mio marito, ma non potrei rinunciarvi –
suggerisce la first lady
- Non credo siano dei mezzi di comunicazione sicuri, se posso permettermi…
- Oh John Smith, per te sarebbe pericoloso anche un bunker nello spazio, fortuna che mio marito non ti ha nominato ministro della Giustizia e dei Doveri Pubblici, altrimenti non oso sapere cosa mi faresti…- la first lady dà d’occhio ai convitati con sguardo ammiccante, muovendo in avanti le mani come per scacciare le mosche.
Risate.
- Beh, io credo che Spicebook sia una invenzione sensazionale, ho trovato lì i miei ultimi tre compagni, sapete? Vero Napoleone? – sussurra maliziosamente la duchessa, accarezzando il muso del cane
- E tutti under 30…
- Venessa! Non è questo il modo di parlare alla duchessa Menteur
- Oh first lady, carissima, non siamo così formali, dopotutto è solo cronaca, c’è da aspettarselo da una giornalista, giusto signorina Hodgson?
- Ovviamente
Risate.
- E senti piccola mia, tu, invece, love affairs?
- Oh, sono troppo schietta per prendere qualcuno che mi sopporti più di una settimana
- Capisco, beh…dovresti provare almeno due settimane
- Duchessa!
- Oh, first lady, diciamoci la verità, non siamo di certo pronte ad una vita di sudoku e passeggiate romantiche finché morte non ci separi, noi ragazze, o sbaglio signorina Hodgson?
- Dopotutto è solo cronaca…
Risate.
- Finiamo questo basso gossip, credo che anche Mary concorderà, si parlava di Spicebook
- Donne impegnate…– sospira con malizia la duchessa, Napoleone guaisce come per assentire.
- Marcel cosa ne pensa lei di questo Spicebook?
- Credo sia solo la bassa espressione di una società piccolo borghese, first lady – boccata di fumo, il professore fa un piccolo verso dalla bocca, una risata trattenuta.
- Io non sono una piccolo borghese Marcel
- Non mi riferivo, di certo a lei, Duchessa
- Di certo sarebbe da identificare in un motivo sociologico – esordisce Stan Laurel
- Di certo, molte sono le cose che andrebbero chiarite alla luce di un motivo sociologico, come gli atti di terrorismo o altro ancora… - Smith indirizza le mani verso lo speaker, che tace.
- Scusate se interrompo il combattimento dei galli, ma credo che il signor Laurel abbia ragione, se proprio dobbiamo dare una critica a questo fenomeno dovremmo inquadrare la società che viviamo, la cultura, psicanalizzare la collettività come frutto di anni di noia e sviluppo economico, mancanza di stimoli…
- Sono d’accordo Vanessa, non che ne sappia molto, ma…
- Beh sei laureata in sociologia e psicologia, chi meglio di te Mary!
- Vedo che sei informatissima Vanessa
- Mestiere…
- Ma è da molto che non mi concentro su questi studi, preferisco accordarmi alla tua tesi
- E lei professore?
- …
- Professore?
- Eh, sì?
- Cosa ne pensa?
- …Che questo tavolo avrebbe bisogno di essere psicanalizzato alla luce delle c…vado in bagno, scusate.

Lui ha uno sguardo scuro, occhi neri, non sembra cattivo, ma è inquietante, freddo.
- Peter Donovan ti chiami…
- Sì signor De Valera
Fa sempre le solite domande, non parla di niente, vuole capire chi sia in realtà.
- E ti manda la Voce?
- Sì
- E cosa vuole?
- Una missione
- Ne ho già una
- Lo sappiamo
- Bene
- …
- Caffè?
- Sì, grazie
Lascia la pistola sul tavolo, una Colt 1911, pulita, sembra quasi mai usata, se non mai. Mi dà le spalle e se ne va ai fornelli, dove mette su il bollitore. Sembra troppo sicuro: o è scemo o vuole farmi fuori.
Non è uno scemo.
Mi alzo e gli do le spalle, sento che mi sorveglia. Giro per la stanza: orribile. È tutto ammucchiato, tutto in rovina, decadente.
- Posso fumare?
Chiedo
- Ci mancherebbe, è un dovere qui dentro
Fa una battuta.
Noto la borsa mezza piena ai piedi del letto, l’armadio in subbuglio, a cui mancano chiaramente degli elementi.
- In partenza?
Attimo di pausa, sta in silenzio, l’acqua mormora. Non mi guarda mai.
- Sì
- Per dove?
- Viaggio di piacere
- Ho capito
La radio sul tavolo è un bel modello, vecchio, di legno.
- Posso mettere un po’ di musica?
- Fa pure
Accendo, metto su Radio Golpe.

Robbin' people with a six-gun
I fought the law and the law won
I fought the law and the law won
I lost my girl and I lost my fun
I fought the law and the law won
I fought the law and the law won

The Clash, I fought the law.

- Lui era un caro amico…beh, qualche volta è stato più di un amico…
Risate.
- Duchessa credo debba diminuire lo spumante, non è neanche l’una…
- Ministro, so io cosa debbo fare, vero Napoleone?
Il barboncino abbaia sommessamente.
- Del resto possiamo immaginare l’amicizia come l’amore senza sesso
sentenzia Marcel Zenot.
- Cazzate…
sentenzia Matthew Angeli.
- La sua affermazione dà luogo ad una disputa più ampia
osserva la first lady
- Senza dubbio, e soprattutto dove sono tutti questi amici che conosce la duchessa?
Risate. Ma Zenot è nero in volto, non soddisfatto e perciò:
- Può ripetere cosa ha detto professore?
- Ma no, stava bisbigliando per conto suo, vero Matt? – giustifica Mary
Matthew Angeli sta bevendo il suo quarto Bellini, fisso verso un punto, chissà dove nella stanza.
- …No…
- Cosa?
- Già, cosa intendeva professore?
- Volevo solo dire che ciò che ha detto mi pare il prodotto di una società piccolo borghese, tutto qui…
Il professore sposta lo sguardo verso Zenot, lo squadra per un attimo, fa una smorfia e si rigira. L’intellettuale Marcel Zenot arrossisce, si tocca il collo della maglia e mentre proprio sta per rispondere…
- Bene, discorso, discorso, scusate ma è il momento…
Stan Laurel alzandosi dalla sua sedia. Si dirige verso l’orchestra richiamandone l’attenzione e facendogli abbassare il volume. Prende il microfono, dà due colpi, fa un segno ad un gabbiotto laterale dove ci sono due dj:
- ehm ehm…Scusate signori, siete in diretta su RCC, radio cultura continua…

Mi avvicinai ai fornelli, lui era di spalle.
- Così quale è la missione che la Voce ha per me?
- Niente di particolare, è solo un compito di ridimensionamento dei ranghi…
- Non mi pare voglia ridimensionarli…
- Perché?
- Beh, tu dici di essere nella Nuova Inghilterra, ma se è così io dovrei saperlo…
- Stanno cambiando un po’ i piani, anche per questo sono qui…
- La Voce dovrebbe parlare con me visto che coordino io tutte le azioni della Nuova Inghilterra, ma ho già da qualche tempo l’impressione che non sia così
- Parlane con la Voce
- Lo farò, molto presto, magari durante il mio viaggio di piacere, Eamon McCarthy…
Rimasi confuso per qualche istante, il tempo necessario per fargli schivare il coltello che gli stavo conficcando nella schiena.
La radio era troppo alta. Perfetto.

London calling to the faraway towns
Now that war is declared-and battle come down
London calling to the underworld
Come out of the cupboard, all you boys and girls
London calling, now don't look at us
All that phoney Beatlemania has bitten the dust
London calling, see we ain't got no swing
'Cept for the ring of that truncheon thing

Tirai un altro colpo.

- …ha scritto poesie, articoli, romanzi, e saggi tra cui il famosissimo “Città Irrisolte”, per cui siamo oggi tutti qui presenti per celebrarlo…
- Che cos’è sta pagliacciata…
- Shhhh
- …ha ricevuto premi in tutto il mondo, come del resto le traduzioni dei suoi scritti sono ormai disponibili in 32 lingue differenti…
- …che noia, non c’è bisogno che Stan mi racconti la mia vita…
- Matt, smettila, se mi fai indispettire anche in questo momento, non te lo perdonerò mai
- Pfff…
- …e più di tutto è fondatore della Young Poets Association che ogni anno finanzia un ragazzo che non ha le possibilità economiche adeguate, ma potenzialità artistica, ad emergere dal mare magnum di questo mondo difficile e poco meritocratico…
- Ci manca solo che dica che ho conosciuto il Papa, il Dalai lama ed Elvis…
- Ma non sei un minimo emozionato? È il premio più importante nella carriera di un artista, di un uomo di successo
- Non è questo quello che mi aspettavo per emozionarmi.
- …un uomo un po’ rude, ma di grande spessore umano e letterario. È per me un onore presentarvi il professor Matthew Angeli, vincitore del premio dell’Uguaglianza Europea di quest’anno.
- Evviva! – borbotta il professore
L’orchestra rialza il volume. Fly me to the moon.
Mi alzo, sorrido, saluto, un occhio di bue mi prende in pieno, mentre la sala si oscura. Che porcata.
Mary, la mia dolce Mary è eccitatissima per questa mascherata, mi gira verso di lei, mi aggiusta il collo della giacca e mi bacia:
- Come ti senti?
- Voglio tornare a casa
- Ti amo
- Già…
- Dai, vieni qui da me Matt, non fare attendere gli ospiti
- Vai amore
- Sì sì…eccomi!
Sorrido e saluto ancora. Abbasso la testa verso Marcel Zenot, il coglione pensatore dei miei stivali e sorridendo a quarantanove denti gli sussurro una cosa.
- Tu vorresti stare dalla parte del popolo vero?
Gli stringo la giacca con una mano.
- Tu vorresti, ma questo vestito spiega molto di te…
Gli premo sulla spalla, puzzo d’alcol.
- Tu non sei un intellettuale, mi senti Marcel Zenot? Tu sei un manichino di velluto vestito, finanziato da una puttana vecchia e grassa, che magari ti sei anche scopato per prendere due soldi. Tu sei la merda da cui mi pulisco il buco del culo tutte le mattine, tu non sei niente Marcel Zenot, imparalo…
Gli do due pacche dietro la schiena per cordialità.
- E per quanto impegno ci metterai, non sarai mai niente perché sei marcio dentro e il cervello l’hai ben tappato in un pacchetto regalo, per non far uscire la puzza fuori, ma quando apri la bocca si sente che olezzo hai, Marcel Zenot…
Lo spingo con calma lontano da me, rialzo la testa, sorrido.
- Ora scusami ma devo andare a far eccitare qualche dozzina di cazzi mosci come te…
E vado verso Stan. Che io ricordi, e avevo bevuto molto, non ritrovai Zenot al mio ritorno.

È bravo, ma non abbastanza. Schivo il suo colpo, poi riparte, gli fermo il braccio, colpisco il polso col ginocchio, il coltello cade. Non si fa bloccare, mi spintona.

The ice age is coming, the sun is zooming in
Engines stop running and the wheat is growing thin
A nuclear error, but I have no fear
London is drowning-and I live by the river

Mi sembra impreparato. Di solito si spintona quando si è finita la parte dei preliminari.
Gli falcio la gamba d’appoggio. Cade.
Gioventù…

- Volevo ringraziare il Ministro Smith, la first lady, l’organizzatrice del premio, la duchessa Menteur, voi che siete qui per esservi sorbiti questa sequela di lodi, poi un bacio sincero al mio heart angel, Mary che, a differenza vostra, mi sopporta da venticinque anni…
Li faccio ridere, davvero molto, quasi quasi ci prendo gusto.
- … capirete lo stato dei suoi nervi. Mi sento, dopo questa carriera, un po’ spaesato, cosa cerco ancora? Mi sento un personaggio in cerca d’autore…già, e anche un po’ brillo…
Ci sa fare il ragazzo, pensa il Presidente.
- …per cui non vi tedierei ulteriormente e me ne andrei a posto. Grazie e buon ascolto del mio libro su RCC. Per chi vorrà, a stasera alla premiazione
- Premiazione che si terrà al Palazzo dei Congressi in Roma, alla presenza del presidente della UE. Io sono Stan Laurel, per voi con voi, continua la musica e la maratona di lettura. Buona giornata a voi radioascoltatori e a voi gentile pubblico non pagante.
Il Presidente spense la radio e si diresse verso il soggiorno della sua grande villa romana.
- Ragazzi, il pranzo è quasi pronto, andate a lavarvi le mani
- Sì, papà
- Sì, finiamo di vedere la TV
Il Presidente aveva due bellissimi ragazzi biondi, uno di sedici e uno di tredici anni.
- Smettetela con questa televisione
- Ma ci sei sempre tu e lo zio John e la mamma, e poi non decidete voi il palo in sesto?
- Palinsesto
- Sì papà, quello
- Ma questo non vuol dire che non ci siano attività più interessanti da fare, più costruttive
- Ma la TV è bella!
- Non tutto ciò che è bello è utile o positivo, o fa bene
- La mamma è bella – disse il più piccolo
- La mamma è un’eccezione alla regola Tommy, allora
- Che attività più interessanti ci sono da fare, papà?- disse il maggiore
- Non saprei Jimmy, leggere un libro.
- Bleah
Il Presidente sorrise.
- Beh, ecco cosa potreste fare…
- Cosa papà?
- Venite, vedete questa?
- Sì
- È una radio
- Lo sappiamo
- Ah sì?
- Sì, papà, anche se è una cosa antica
- È dalle cose vecchie che vengono le sorprese migliori, imparate ad ascoltare, la radio, e lasciate stare la TV
- Ma…
- E ora a lavarvi le mani su
- Sì

Mi prende le gambe da terra, cado anche io, ma mi reggo con una gamba in piedi e mi rialzo proprio mentre lui mi sta scattando addosso, lo schivo, gli do un calcio dietro la schiena che lo fa cadere a terra. Lo scaravento al suolo, mi fiondo sul suo corpo.
È il momento.
- Mi dispiace ragazzo
Eamon McCarthy sputa un rivolo di sangue dalla bocca, spalanca gli occhi, restano fissi, immobili. Robert De Valera lo alza dal pavimento e lo butta sul tavolo. Non vuole sporcare la moquette. Sfila l’ago da lana che gli ha conficcato dietro la nuca con delicatezza, il sangue non esce dal buco se non per una goccia. De Valera si concentra sull’ago sporco appena estratto.

Il ragazzo girò le mani col palmo verso l’alto, le scorse.
Sangue, rosso sangue, rosso, rosso rosso.
Omicidio!

Ebbe un brivido si sedette, le braccia sul tavolo.
I ricordi di più vite spente aleggiavano sui muri ingialliti di quella stanza, sulla carta da parati arricciata. E lo fissavano per la vergogna che verso di lui provavano. Quel vecchio diavolo nostalgico come lui questo non poteva sopportarlo.
La porta batteva da sola, forse il vento. Un uomo solo in una stanza, accanto ad un cadavere. I ricordi ancora a guardarlo. Occhi fissi dalla pareti, fissi fissi fissi. Alzò lo sguardo al soffitto, poi li ritirò in basso. Diede un pugno alla radio che cadde. Si sintonizzò su un’altra frequenza.
Tom Jones, It’s Not Unusual

It's not unusual to be loved by anyone
It's not unusual to have fun with anyone
but when I see you hanging about with anyone
It's not unusual to see me cry,
oh I wanna' die


Solo mani tra i capelli, a tappare le orecchie.

[Credits: Photos - Last Days & I've seen it all - by Michele Castellano]

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