Programmazione

UN ROMANZO ONLINE. OGNI LUNEDI' UN NUOVO CAPITOLO.OGNI VENERDI' GLI APPROFONDIMENTI, LE SUGGESTIONI, I RIFERIMENTI CHE HANNO ISPIRATO IL ROMANZO, PER CHI DESIDERA ENTRARE IN UNA DIMENSIONE FATTA DI MUSICA, EVENTI, IMMAGINI, FILM E DIPINTI. UN MELTIN' POT DI INFLUENZE COSI' DA NON DOVER SOLO CREARE CON LA FANTASIA, MA POTER SFRUTTARE AL MASSIMO ELEMENTI CONCRETI E TRASCENDERLI PER ADDENTRARSI NELLE CITTA' IRRISOLTE.
UNA PROGRAMMAZIONE POSSIBILE SOLO SU UNA RADIO CHE NON ESISTE E TRAMETTE OVUNQUE.
OLTRE OGNI EPILOGO.

-R.S. CENCIARELLI-

Monday, November 3, 2008

Chapter I - Orologi Imperfetti

- Sono le ore otto e quindici minuti.

You woke up this morning
Got yourself a gun,
Mama always said you'd be
The Chosen One.
She said: You're one in a million
You've got to burn to shine,
But you were born under a bad sign,
With a blue moon in your eyes...

- Fanculo...

Dolore. Diffuso dolore.
Sudore. Diffuso sudore. Asciugato sulla maglietta della sera prima, credo.
Bianco. Diffuso bianco. Del soffitto del mio appartamento, credo.
Bianco. Diffuso bianco. Del mio cuscino, credo.
Tutto è diffuso, mentre struscio la testa a destra e a sinistra del letto per darmi nuove interessanti configurazioni dell’ambiente circostante.
Ho da poco picchiata la radiosveglia.
Mi metto a ridere, con un certo pudore, perché so che sta per succedere. Bisbiglio qualcosa.
- Buongiorno Alcol Man…
Sei vivo e maledettamente sveglio per affrontare un nuovo giorno così entusiasmante ed apatico che sembra proprio il precedente.
- Bravo Alcol Man…- dovrei sempre essere io con una voce da Lucifero con la raucedine
Sei riuscito ad addormentarti quell’ora o due necessarie per farti vivere tutte le conseguenze di quella ce è stata una sbronza epica.
La testa mi pompa come un dannato martello pneumatico che cerca ostinatamente di trapanare il mio osso occipitale. Sposto ancora lo sguardo verso l’alto. Commetto un atto impuro…no, non è quello che avete capito, era solo una metafora per dire che questo mio gesto idiota, proteso verso il cielo, mi fa accorgere che gli occhi mi bruciano, e fanno male, le pupille spingono verso l’esterno, piccoli spilli che hanno deciso, proprio stamattina, di farsi giovani vagabondi del dharma.
Decido di concentrarmi su un attento check-up del resto del corpo, prima di fare altri movimenti avventati. Qualcosa, forse, l’ho salvata.
Pensiero idiota.
Le gambe non ci sono, o meglio, ci sono, ma se provo a dargli dei comandi motori ritengo seriamente che potrei anche svenire. I polmoni sono gravi, intasati come Piazza di Spagna la domenica, a mezzogiorno. La bocca è impastata, disidratata e l’intestino è stato, di certo, utilizzato per fare il tiro alla fune durante tutta la mia pausa dormiente. Lo sento tirare, fermarsi, cambiare direzione, contorcersi. Mi viene da vomitare. Sì, è questa la diagnosi più chiara, ma, proprio mentre la nausea si amplifica, la testa, lasciata un po’ a se stessa, decide di ricordarmi che in questo gioioso venerdì mattina c’è anche lei a volermi far male. Il trapano passa attraverso la mia fronte e rimango in uno stato di coma cosciente in cui sai che, qualsiasi cosa accada non devi muoverti, fissando catatonico le screpolature dell’intonaco ingiallito, che sono un po’ ovunque sul punto in cui mi sono focalizzato.
Ad ogni modo, a parte tutto questo, sono okay.
Niente di più, niente di meno di quello che è successo venerdì scorso e l’altra settimana e quell’altra ancora, risalendo a capo di un intero, allegro anno di mattine impastate. Un quarto d’ora che, forse, è tutta un’ora di ascesi sul letto, per stabilizzarmi, durante il quale posso riflettere sugli effetti collaterali dell’alcol su un soggetto medio della popolazione e che mi permette di rendermi funzionale per le attività standard del risveglio: alzarsi dal letto, raggiungere il bagno.
Obiettivo numero uno: la resurrezione; livello di difficoltà: very hard; scopo della missione: mettersi in piedi senza scatenare un’emicrania che duri fino, nella migliore ipotesi, all’ora di pranzo. Mi muovo lentamente…
“Come quando mi spararono e dovetti andare in ospedale per la riabilitazione”
è quello che avrei scritto in un ideale libro hard-boiled, che poi non avrei mai finito.
Prima una gamba poi l’altra, quindi è il turno del busto e la testa…
“…con cautela, come ripeteva il doc”
…tenendomi con le mani al bordo del letto, fisso le gambe al pavimento, et voilà. Missione compiuta detective Alcol Man.
Buongiorno mondo!
Missione compiuta, male. La testa mi esplode in un multicolore dolore acuto, una breve fitta che mi lascia immobile. Avrò la già citata emicrania per il resto della giornata.
Obiettivo numero due: depositarsi nel bagno; distanza: un metro circa; livello di difficoltà: impossibile. Mi muovo come uno zombie di un qualsiasi B-movie di qualche decennio fa, in una di quelle scene tragicomiche al limite del grottesco. Però, raggiungo il lavandino. Guardo lo specchio:
- Se mai dovessero fare un nuovo video di “Thriller”, Micheal Jackson mi prenderebbe così come sono stamattina, signori miei – risolino distorto e assente.
Occhi ombreggiati di nero e fulminati di capillari rossi, sguardo inebetito, colorito strano quanto basta per stare già in fila dal dottore, zigomi in evidenza che creano un gioco di chiaro scuro, tutt’altro che artistico, ai lati della bocca.
- Esagero? No, non troppo, credetemi.
Saluto il Micheal nello specchio e rido, stavolta più convinto. Mi siedo sulla tazza.
- Bravo Alcol Jackson, altra serata di gala in cui ti sei reso protagonista assoluto
Mi metto le mani nei capelli e ci rifletto annodandomeli. Passeranno venti o trenta minuti prima che capisca che forse, dovrei alzarmi. Micheal è andato via dal mio bagno, sostituito da un viso leggermente emaciato e da un po’ di occhiaie che, del resto, mi assomigliano di più. Risolvo questo problema di sbronze e alzatacce con un po’ d’acqua e la sapiente esperienza delle mie mani, che sanno dove colpire, o almeno dovrebbero dopo oltre vent’anni di convivenza.
Ma le mie ciocche nere ne sanno sempre di più e sono folli, dico davvero, hanno vita propria e torneranno nella posizione che hanno scelto da prima che mi svegliassi, proprio nei venti minuti successivi alla mia uscita da casa.
Mi sciacquo la faccia, fingo di lavarmi sul serio e dovrei radermi, ma non ne ho alcuna voglia. Tanto la barba continua a crescere per conto suo e crescerebbe anche domani mattina, pertanto, opto per affrontarla al prossimo nascere del sole. Sto comunque molto meglio.
Mi gratto la schiena e riesco a sbadigliare, mentre mi dirigo verso il letto a cercare il solito, tradizionalmente introvabile, pacchetto di sigarette. Mi guardo intorno e, il caso ci si mette sempre di mezzo, mi devo accontentare di una sigaretta consumata per metà e spentasi da sola sul posacenere.
- Giusto per svegliarsi un po’- mi dico
Mi metto la camicia buttata sulla sedia, vicino alla scrivania sulla mia sinistra, calzo i vecchi jeans neri, buttati sul letto, il maglione neanche ve lo dico da quanto stava lì e dove stava, soprattutto. Tutti i movimenti effettuati con la solita, flemmatica spiritualità, per non peggiorare il mal di testa.
Mi siedo alla scrivania, cerco di scrivere qualche riga, o meglio, qualche verso per realizzare qualcosa di buono che sia una poesia. Ma non esce fuori che qualche orribile groviglio di lettere che vorrebbero diventare parole: quando cerchi di scrivere qualcosa non ne viene mai niente di buono. Devi essere ispirato, è l’unico modo. Dovrei saperlo da me, ma ogni tanto ci provo comunque. Giro intorno alla stanza. Da poco vivo qui. Prima i miei genitori la affittavano, ma ora che, anagraficamente, dimostro qualche anno in più e, considerando, la determinante vicinanza con l’università che ha abbattuto ogni discussione, in termini di benzina, mi ritrovo qua.
Giro intorno alla stanza.
Trovo le sigarette, continuo a girare fumando. Poi, valuto che ho un dolore generico che, quindi, mi permette di sforzare le meningi e accendo la radio.
Radio Cultura Continua.
Oggi è una giornata evento: i migliori attori, artisti, personaggi dell’Uguaglianza si riuniscono in una maratona di lettura che finirà solo a notte inoltrata, ognuno leggendo un passo del saggio di uno dei miei autori preferiti, Matthew Angeli, in onore del premio UE come miglior letterato dell’anno che riceverà stanotte.
- Radio Cultura Continua in onda con voi. Sono ancora Stan Laurel, avete appena ascoltato la prefazione al saggio del premio UE, il professor Matthew Angeli, ora inizia la maratona che ci terrà compagnia fino a stanotte quando avverrà la cerimonia presso il palazzo dei Congressi in Roma. È per me un piacere dare inizio a questo evento di cultura e di costume col primo capitolo…tamburi di guerra…



1.TAMBURI DI GUERRA

I sound my barbaric yawp over the roofs of the worldpoetava, sperava, annunciava, proponeva, il vecchio W.W. (Walt Whitman) in Leaves of Grass, parlando di se stesso, del mondo, di ciò che non c'è (oppure non essendoci c'è) sopra la nostra Terra, della placidità degli animali. La conclusione della sua canzone su se stesso è che l'urlo barbarico sarà contro la disillusione, la solitudine, la comprensione sopra i tetti del mondo, per scuoterlo e scuotersi dall'imperante torpore. Il grido sugli altri e sulle cose che ad essi si legano, appartengono, in cui vivono, è la distinzione rispetto all'anonimato.E' molto strano: ho letto questa piccola citazione di W.W. su un blog di un ottimo scrittore.Voi, mi domanderete, perchè è strano trovare una citazione di uno scrittore sul blog di uno scrittore?Semplicemente perchè c'è quel termine che, ormai da tre giorni, sembra portarsi dietro tutta la mia vita, dandole nuove rivelazioni: barbaric.Ovunque vada, incontro qualcosa di barbarico, delle sensazioni di un'invasione, le percezioni di un nuovo stato di essenze che sta crollando sulla vecchia fortezza, sul Regno. Ho l'impressione che si stia sostanziando con varie sfaccettature il mio sentore di tamburi di guerra in lontananza.Ma questa era la terza rivelazione, pertanto, cominciamo dall'inizio.Tutto è cominciato giovedì, dopo un incontro andato male: aspettando il mio amico che finisse il suo colloquio editoriale, ho assistito al monologo finale di uno degli ultimi esemplari tipici del vecchio mondo che sta per essere divorato: il professore universitario.L'argomento? La civiltà di massa. Ipotesi: oggi tutto è di massa, nulla è elitario, o meglio, nulla è distintivo, tutto ricade nel pentolone dove qualche saggia strega, sciamana dell'orda che sta per arrivare, mescola la nostra cultura fondamentale, sciogliendola in soluzioni nuove. Svolgimento: per questo io cerco di interrogare uno per uno i miei studenti, per sentire il polso delle loro conoscenze. Osservazioni: la tesi del prof è molto interessante, gentile, se si vuole, ma è il metodo che è vecchio, apprendere nozioni pressoché in maniera mnemonica. Conclusione: Questo non si confà alla nuova cultura, al confronto, alla dialettica che ci vede in questo momento di passaggio, in cui un farraginoso modo di fare, gerarchico, burocratico si trova a dover affrontare un sistema veloce, rapido, senza molte regole di base, ma con grande pretesa di condivisione e sostituzione. Un mondo barbarico che s'addensa alle porte del Regno.La seconda rivelazione arriva lo stesso giorno, poche ore dopo, in libreria, dove per dei semi-barbari come me, ancora accadono molte cose sante. Sfogliando i vari volumi e volumetti, mi ritrovo in mano un breve saggio di Baricco, posso citare un collega no?, intitolato proprio "I Barbari", che affronta una analisi approfondita dell'invasione che pervade il nostro mondo: la diffusione del prodotto per tutti, la commercializzazione elevata a sistema, la perdita dell'anima, confrontando questo modo di fare non nell'ottica degli assediati, ma bensì degli assedianti, cercando di capirne le motivazioni, le prospettive, tentando di creare dei precedenti con le "barbarie" del passato, tra cui, sorprendentemente, compare la Nona Sinfonia di un certo Beethoven, un barbaro del suo tempo, una ara sacrissima della nostra civiltà presa d'assalto.Tre Rivelazioni, tre volte la barbarie in tre angolature diverse: gli occhi dei funzionari del Regno, gli occhi dell'Orda, gli occhi di chi, come me, vive a cavallo tra oggi e domani e odia tante nuove barbarie, mentre, anche, inconsapevolmente ne accetta e sfrutta molte altre.Tesi: tra il regno e i barbari vive una generazione di mezzo, uno spartiacque, così insignificante all'apparenza quanto fondamentale nel suo esistere. Chiamerò questa mia generazione, la [H](a)[u]ngry Generation, affamata ed arrabbiata, leggermente annoiata: si tratta di coloro che guardano "Amici", leggono Dante, ma non sanno usare il PC, tuttavia creano blog e chattano su MSN, pure se preferiscono scrivere in italiano senza "Ke" o "qlc" e "cmq" vari, e se vogliono sapere qualcosa ricercano su Google. E' da essa che dipenderà l'impatto dell'orda, è da essa che dipenderà la reazione uguale e contraria del regno poichè questo sparuto grumo di persone è l'unico che oggi avverte i tamburi di Guerra.Questo sarà il mio barbaric yawp over the roofs of the world. Nella prossima puntata "Venga il tuo Regno", o perchè se Gengis Khan fosse nato oggi guarderebbe il Grande Fratello.


Bel libro, penso. Ascolto ancora per mezz’ora.
Le lezioni in facoltà cominciano alle undici, sono le dieci e un quarto, occorrevano quindici minuti a piedi per arrivare. Ho tempo. Giro ancora un po’ intorno, visito il bagno, poi la cucina. Mi diverte dannatamente girare e pensare. Poi corro alla scrivania, prendo una penna, apro il taccuino come una furia, sfogliandolo fino ad una pagina del tutto bianca. Ci attacco su la punta della Bic, necessariamente nera. A volte le idee se ne vanno fulminee come arrivano e non puoi mica permetterti di dir loro di attendere. Intanto la radio andava tra letture veloci e musica d’intermezzo:



G A G AG A G A G A G A

So you want to be a rock n roll star

then listen now to what I say

G A G A G A G A

Just get an electric guitar

and take some time to learn how to play

D E A

And when your hairs combed right

and your pants fit tight so right so

It's gonna be alright
...

The Byrds, So you want to be a rock'n'roll star.
Alex era seduto, vicino la radio, ad ascoltare. Niente di speciale, o almeno non era così che Alex se l’aspettava la specialità: lui immaginava folgorazioni divine, dita che squarciavano il cielo, luci evanescenti che palesassero qualche angelo che gli conferisse una penna, ma l’unico misticismo particolare che potesse notare veniva dalle parole della radio e dalle sue visioni mentali. Ma ci sarà tempo per parlare di queste visioni. Meglio ora andare con la nostra telecamera su Alex, un bel primo piano che ci porti, arguti indagatori, a scrutarne i pensieri.

“Non ho visto nessuna rivoluzione in vita mia, ma ne ho studiate senza fine: quella americana, quella francese, quella industriale, quella di febbraio, quella d’ottobre, quella studentesca, quella telematica e tutte quelle altre che ora non ricordo e che sicuramente voi conoscerete meglio di me. Non sono un qualche guru, un profeta, un oracolo. Non sono proprio nessuno. Sono un piccolo uomo solo sperduto nel mondo nel momento esatto in cui deve decidere, prima o poi succede a tutti, cosa dovrebbe fare della sua esistenza. Così, ora sono messo seduto, lampo di genio, uno dei rari, e mi sono domandato questo:
Perché devo leggermele tutte queste rivoluzioni? Perché non possono scriverne e viverne una mia di rivoluzione? Una che coinvolga la mia generazione, che gli dia una nuova strada che gli appartenga, che gli dia la possibilità di sbagliare, cercando di cambiare le regole di questo gioco troppo vecchio anche per chi è vecchio oggi. Non vi sembra proprio questo il Momento di essere rivoluzionari?
…”

Era una normale giornata, una uguale a quasi tutte le altre che Alex aveva passato durante questo ultimo anno, e, probabilmente, sarebbe proseguita in questa sua ordinarietà. Ma fu proprio in questo clima di indistinguibile similitudine che Alex iniziò a scrivere il suo romanzo, la causa e l’effetto di tutto quello che gli sarebbe accaduto negli anni a venire, a lui e al mondo circostante.

Avevo ascoltato la radio parecchio, quanto bastava per farmi rendere conto che erano le undici. Inutile il tentativo di arrivare in tempo, almeno nella mia visione metafisica dell’esistenza, considerando le dilatazioni spazio temporali, le variabili aleatorie, la scatola dove ci metti il gatto e te ne escono una quarantina, i film di Star Wars che avevo visto. Impossibile e improbabile.
Sono un orologio imperfetto: quelli imperfetti nella meccanica, che, più passano gli anni, più dilatano o velocizzano la scandire dei secondi e, nell’arco d’una vita, si mangiano minuti, ore, anni. Non saranno mai sincronizzati col mondo, ma è il fatto è che vadano così che è la loro unicità. Tuttavia sarei uscito comunque, per arrivare in orario almeno alla seconda lezione. Potevo farcela, dopotutto.
Prendo l’accendino, il cappotto, i soldi, la borsa, il cellulare, le chiavi della macchina, un distintivo della polizia finto, rubato a mio cugino di cinque anni, esco, blocco la porta, la riapro, ma poi:
- Ah dimenticavo…mi chiamo Alexander Colin McMillan.
Tutti mi chiamano Alex. Tutti dico, anche chi non mi conosce, dopo una giornata insieme fa “Ciao Alex”. Appunto. Tutti. Una volta due miei amici d’infanzia, dopo essersi conosciuti si dicevano “Ma pure tu lo chiami Alex” “Sì” “Pensavo di essere l’unico””Anche io”. Tutti. Non racconto bugie, non sempre almeno.
Vivo a Roma da quando sono nato, o quasi, ma perderemmo troppo tempo se vi spiegassi le mie origini. Vi basti sapere che mio padre è irlandese, fuma la pipa e ama l’Italia, mia madre è italiana, si preoccupa che non prenda freddo alla schiena e ama leggere, insegnava lingue straniere. Quindi, eccomi qui: con un nome lunghissimo, da non riuscire mai ad entrare negli spazi dove si firma, una vita a spiegare che “No, non sono straniero” “Ma hai il nome…” “Ho genitori originali” oppure “Fatti gli affari tuoi, non è mica tuo il nome”. I bambini devono sempre analizzare la situazione, chiedere perché, dove vanno, chi sono, quale è il senso delle cose, che significato ha il tuo bizzarro nome visto che parli italiano. Insomma, non c’è speranza. È all’asilo che si impara la vera filosofia, mica all’università. I bambini ne sanno molto di più di qualsiasi signor Hegel o Sant’Agostino che capiti in giro. I bambini non si fanno paranoie, loro chiedono solo perché: rispondetegli poi, cercando di evitare un successivo “e perché?”.
Ad ogni modo i miei vecchi sono brava gente: nessun letterato, grande scienziato o luminare prossimo al Nobel, ma m’hanno saputo amare. Ed è questo che conta alla fine. Solo questo.
Io, invece, sono un bastardo. Ho in mente già da tempo di dargli una lettera che porto in tasca tutti i giorni. Cosa aspetto per dargliela? Aspetto di avere il coraggio di essere un codardo, di andarmene via, di partire. Dove? E che ne so io.
Io scrivo solo poesie.
Dico davvero, scrivo poesie, e mi riesce anche bene a quanto pare. Fra qualche mese dovrò presenziare anche ad una premiazione per un libro che ho scritto. Non ve l’aspettavate vero? Non se lo aspetta nessuno. Quando lo rivelo, la faccia del mio interlocutore/interlocutrice è tra il sorpreso, il disgustato, il dubbioso e il “chissà che assurdità scriverà sto tipo”. Invece, sto tipo scrive poesie, anzi, ha scritto un libro di poesie.
A dire la verità, avrei sempre voluto scriver un romanzo, ma niente, mi escono fuori le rime, le parole difficili, quelle auliche, e tutte le paranoie da poeta in lotta col mondo, triste, cinico e sofferto.
Studio, anche, all’università, ma ora non mi va di parlarne.
Ne parlo già talmente tanto all’università dell’università. Almeno studiare mi ha un po’ distratto negli ultimi tempi: mi sono lasciato con la mia ragazza. Sapete quelle relazioni burrascose, ti lascio, ti riprendo, poi “lasciamoci che tanto lo sappiamo tutti e due come va a finire” (veramente io no), ti va di uscire una volta per fare due chiacchiere, io mi gioco il jolly, io prendo due carte e passo per il via, insomma roba così. L’aggravante è stata solo una però: avevo scoperto, dopo un anno, sapete cosa? Sì, bravi. Mi ero innamorato. Cotto. Finito, perduto, smarrito, spaesato, un cretino. Altri sinonimi? Io ne avrei a bizzeffe, ma non voglio tediarvi ulteriormente con queste storie melense. Tuttavia, tutti i miei fantastici voli pindarici erano inutili: c’eravamo appena lasciati quando ho avuto la mia rivelazione sulla via di Damasco o, per essere meno epici, sulla via per tornarmene a casa, una normalissima serata passata a casa di amici.
Gli amici.
Non mi posso lamentare di certo degli amici. Ne ho parecchi, pochi buoni, ma si sa come vanno queste cose. A dirvela tutta, ma starebbe anche aspettando un mio amico, ora. Infatti, sarei in ritardo, io sono sempre in ritardo. Dico davvero. Sono uno che è cronicamente in orario sulla tabella di marcia, ma poi, all’ultimo istante, si perde, si gingilla, si fuma una sigaretta, si legge un libro, si mette a parlare da solo, come sta succedendo adesso, ed arriva tardi.
Quindi, scusate, ma non vorrei tardare troppo sul mio ritardo.
Dico davvero, siete un pubblico fantastico, ma non ci siete, perciò mi accomiato con molto dispiacere. Buon proseguimento.-
Così Alex la smise di parlare con lo specchio del bagno, si aggiustò i capelli. Poco prima di chiudere la porta, la bloccò con uno scatto deciso e la riaprì.
Le chiavi di casa.
Le prese e richiuse la porta dietro di sé.

Le chiavi di casa. Esco definitivamente, mi sistemo tutto, mentre scendo le scale. Il cappotto sopra le spalle, la borsa sul cappotto, i soldi e le chiavi della macchina nella tasca sinistra, i soldi e l’accendino in quella destra, il cellulare, il distintivo e le chiavi di casa nel cappotto. Mi fermo, due scalini prima del portone che dà sulla strada. E le sigarette? Ripeto arcane maledizioni in lingue a me sconosciute ed esco fuori. C’è il sole, troppo per chi ha il mal di testa e mi rendo conto che, oltre le sigarette, mi sono scordato anche gli occhiali scuri tre piani più in alto, una distanza proibitiva.
Giornata del cavolo, insomma. Obiettivo finale: sopravvivere alla giornata; scopo del gioco: non diventare ciechi prima dell’ora di pranzo, trovare una sigaretta; obiettivi facoltativi: chiamare un taxi. Non è una cosa che faccio spesso, chiamare un taxi dico, mi sarò capitato altre due volte nella mia vita, ma i miei sono partiti e mi hanno lasciato qualche denaro utile. Ad una approssimativa valutazione, poi, le gambe non sosterrebbero il cammino a piedi, la testa non sosterrebbe il tragitto in bus in solitaria. Vada per il taxi. Alzo la mano.
Si ferma un vecchio taxi bianco, entro dentro.
- Dove andiamo?- dice lui
- Insegua quella macchina- dico io, mostrando il distintivo e indicando una macchina a casa, davanti a noi.
- Sta scherzando?- fa lui, tra lo spaurito e il confuso
- Certo che sto scherzando – sorrido – le sembro un poliziotto? E poi il distintivo è di plastica, si vede lontano un miglio- rido senza freni ora, quasi le lacrime agli occhi, la testa che batte come una macchina da scrivere, però.
- Ma le sembrano scherzi fare, ragazzino? È tutta la mattina che scarrozzo gente avanti e indietro nel traffico e sono pure in ritardo con una chiamata prenotata.
- …-
- La porto da qualche parte o scende, allora?-
- All’università-
E parte. Accende la radio.

- ...vano Fossati, listen to this sound...

Per niente facili
Uomini cosi' poco allineati
Li puoi chiamare ai numeri di ieri
Se nella notte non li avranno cambiati.

Per niente facili
Uomini sempre poco allineati
Li puoi pensare nelle strade di ieri
Se non saranno rientrati.
Sara' possibile sì, incontrarli in aereo
Avranno mani e avranno faccia di chi
Non fa per niente sul serio
...

Ve l’ho detto io, orologi imperfetti.
Sempre a inseguire l’ora degli altri.
[Credits: Photo by Michele Castellano]

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